Il Futurismo

Siamo all’inizio del ‘900. L’occidente è pervaso dalla frenesia dello sviluppo tecnologico che conosce i successi dell’industria assieme alla proposizione incessante delle novità tecniche, cui fa da sostegno teorico il consolidarsi del pensiero positivista. Si comincia a credere che la scienza contenga in sé ogni soluzione ai bisogni degli uomini e ci si incammina verso una fatale inevitabilità della presenza tecnologica nella vita umana. È la stagione che vede il trionfo definitivo della borghesia, cui si accompagnano i problemi e le questioni politiche e sociali di una moderna società industriale. Ogni aspetto della vita risulta inedito: dalle problematiche sociali di nuove forme nei rapporti di lavoro, ai fenomeni dell’inurbamento selvaggio; dalla “fame” industriale di materie prime che inaugura la stagione colonialista, agli aspetti anche più privati delle forme dell’esistenza: basti pensare alla presenza di automobili, aerei, ferrovie, che accelerano i ritmi quotidiani di tutti. Persino la cultura legata alle immagini sembra partecipare alla frenesia del tempo attraverso l’invenzione del cinematografo e con gli studi “cronofotografici” sugli effetti del movimento di uomini e oggetti.
È in questo contesto che sorge in Italia il movimento futurista, che si erge a cantore del progresso ed insieme a radicale contestatore delle forme consolidate del comune sentire. La società borghese con i suoi gusti perbenisti e prestabiliti appariva ai futuristi stantia e oppressiva, tanto da propugnarne la distruzione per mezzo della «guerra, sola igiene del mondo». Nella poetica futurista questa inidoneità delle convenzioni sociali assumerà l’aspetto radicale della contestazione che se assumerà l’aspetto spettacolare e provocatorio delle “serate futuriste”, giungerà anche ad affermazioni estreme che conterranno il rifiuto drastico di ogni assunto estetico fino ad allora consolidato: «...un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia».
Ma questa radicalità di posizioni, che vede l’adesione assoluta alle irruenti novità della trasformazione tecnologica del vivere d’ogni giorno, non impedisce a Boccioni, il massimo esponente dell’espressione pittorica del movimento futurista, di percorrere quella malinconica introspezione dell’animo umano. Il viaggio nella profondità del proprio sentire (vedi la serie degli Stati d’animo) assumerà gli stilemi formali che ubbidiscono alle vorticose ragioni estetiche futuriste, con tutti gli stravolgimenti e le compenetrazioni di piani e colori della poetica pittorica futurista, ma rivela anche quella sapiente maniera che “sente” la forza seduttiva del colore e della forma in maniera da rendere comunque immancabile lo splendore dell’opera. Seppure rappresentate con il tipico vorticismo attorcigliato e con le intersecanti linee dei piani che caratterizzano la pittura futurista, nell’opera di Boccioni di ogni cosa o persona ce ne viene restituito anche in quel modo l’incanto.
Dopo gli esordi divisionisti che si evolveranno nella forma “stirata” derivante dalla maniera di Previati, Boccioni si incammina convinto lungo quel tragitto pittorico che lo porterà ad essere l’esponente di maggior spicco del movimento. Assieme a Filippo Tommaso Marinetti, il propugnatore del manifesto del futurismo e in compagnia dei pittori Balla, Severini, Russolo e Carrà, svilupperà l’ultima stagione di un grande movimento che avrà l’Italia come sua terra d’origine, interrompendo quel lungo periodo che, dopo i trionfi dei Tiepolo nel XVIII secolo, aveva visto il nostro paese in secondo piano rispetto al tumultuoso susseguirsi delle innovative proposte artistiche europee.
Sarà un movimento di non lunghissima durata, e che conoscerà sviluppi soprattutto nell’est europeo, con i movimenti costruttivisti russi fino agli estremi della poetica suprematista di Malevič.
La breve vita di Boccioni (morì nella prima guerra mondiale per le conseguenze di una caduta da cavallo) non ci ha permesso di assistere all’evoluzione della sua poetica, che segnala con il ritratto del musicista Busoni, un sintomo di recupero di una poetica maggiormente figurativa. Non possiamo affermare che si trattasse di una svolta poetica, essendoci rimasto quell’unico splendido episodio. Va comunque osservata la qualità che ha contraddistinto Boccioni lungo tutta l’evoluzione della sua opera, dalle sensibilissime cromie dei dipinti quasi divisionisti (La signora Massimino, La madre), per proseguire con la potenza introspettiva de Gli stati d’animo, quindi attraverso l’imponenza intricata di Materia, fino alle opere più “spinte” del formalismo futurista (Dinamismo di un foot-baller e Dinamismo di un copro umano), in tutto questo tragitto, dicevamo, mai è dismessa quella potenza seduttiva che l’acceso cromatismo pittorico conferisce all’intera opera di Boccioni.
È questa la conferma che sulla scena dell’arte, qualunque sia il registro che prevale, la soggettività apparentemente formalistica o la fedeltà del modello naturale, sempre avviene uno svelamento dei sensi più profondi dell’esistente, mostrandoci di volta in volta una o più delle mille storie che ogni cosa custodisce e che l’artista ci offrirà con la seduzione della propria opera rivelatrice, svegliandoci dalla comune sensibilità e sollecitandoci alla riflessione inusuale attraverso lo strumento principe di cui dispone: l’incanto della bellezza dell’opera pittorica.

MA COME E DOVE NASCE IL FUTURISMO??
Il Futurismo nasce ufficialmente quando a Parigi, sulle colonne del “Figaro” del 20 febbraio del 1909, appare il “Manifesto del Futurismo”, a firma di Filippo Tommaso Marinetti.                             
La scelta della tribuna parigina per il lancio del movimento è azzeccata e si rivela subito una gran cassa di risonanza capace di interessare aree culturali molto lontane, dalla Francia alla Russia dove il Futurismo ebbe altro svolgi­mento e, a livello letterario, produsse le sue cose migliori.
Nel 1909 esce sul quotidiano parigino “Le Figaro” il primo “Manifesto del Futurismo” contenente i semi fondamentali di questa delirante e fruttuosa esperienza. Punti fondamentali e irrinunciabili della nuova corrente sono l’esaltazione della velocità (“un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia”), la glorificazione della guerra “sola igiene del mondo”, la distruzione “dei musei, delle biblioteche, delle accademie d’ogni specie” per togliere di mezzo una cultura morta che si regge sul “passatismo”, la liberazione dell’Italia “dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquarii”. Nessuno ha mai osato dire tanto e così esplicitamente, soprattutto, perché la tribuna dalla quale Marinetti parla non è solo la “provincia” italiana, ma addirittura Parigi. D’altra parte, Marinetti è irriducibile e continua a tuonare provocatoriamente: la violenza e il paradosso estroso delle immagini si reggono su un’estrema pirotecnica del linguaggio, tratto molto spesso dalla nuova realtà industriale del secolo, e reso incalzante da una foga irruente del discorso continuamente arrembante, spiritato, talora profetico e visionario.
Al movimento, accompagnato da fenomeni del gusto e della moda, aderiscono ben presto scrittori e artisti di varia natura e provenienza culturale: i poeti Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi, ad esempio, dopo aver attraversato l'esperienza crepuscol­are.
È in questo quadro storico che l’intellettuale vive lo “shock della modernità”, cui cerca di reagire con risposte diversificate. 

QUAL'E' LA RISPOSTA DEI FUTURISTI ?
Essi si fanno banditori e sacerdoti della nuova civiltà nel bene e nel male, esaltandone alcuni vistosi aspetti, quali la velocità, la simultaneità, l’automobile che è il nuovo fascinoso mito destinato a tanto avvenire. Compreso l’inarrestabile sviluppo della nuova realtà portata dalla macchina e l’impossibilità di esorcizzarla, i futuristi aprono la via all’esaltazione, spesso indiscriminata, della civiltà industriale e urbana.
Una volta accettata questa logica, i futuristi promuovono un violento attacco contro l’arretratezza delle strutture socio-economiche del paese, contro la mancanza di un profondo sviluppo tecnologico che, in quegli anni, tanto ancora differenzia il clima nazionale dal clima metropolitano europeo. Scatenano la loro violenza “travolgente e incendiaria”, i loro artifici provocatori contro tutto ciò che è di ostacolo a un nuovo progresso industriale e alla dimensione del moderno. Attaccano anche il vecchiume delle istituzioni culturali e letterarie, lo stagnante culto dell’arte, l’umanesimo antiproduttivo del poeta.
Il Futurismo, contro la cultura e l’arte tradizionale, propugnò una nuova estetica ed una nuova concezione di vita, fondate sul dinamismo come principio – base della moderna civiltà industriale. Marinetti aggredì gli schemi arcaici e vincolanti della cultura tradizionale con violenza ed asprezza e ne attuò una impetuosa corrosione.
I futuristi, quindi, rinnegarono il passato e guardarono alla realtà dell’era meccanica, nella quale tutto si muove, tutto corre. Nacque da ciò l’esigenza di dipingere l’oggetto in movimento, o meglio il movimento stesso degli oggetti nello spazio, creando composizioni in cui sono resi concreti dinamismo, velocità, suoni, odori, rumori; gli oggetti, in tal modo, venivano rappresentati con un procedimento molto simile a quello attuato dai cubisti che, sulla superficie piana della tela, scomponevano l’oggetto nei suoi volumi, in tutte le sue parti, visibili e nascoste, riducendolo quasi ad una sequenza di forme geometriche organizzate in una visione simultanea nel tempo e nello spazio. Si tratta di immagini che si deformano in un turbine di linee, forme e colori, dentro il quale lo spettatore si sente quasi trascinato. (Per rendere evidente questa esplosione di movimento e velocità i futuristi scomposero e costruirono le immagini con un procedimento molto simile a quello adottato dai Cubisti.)
Al di là di ogni pericolosa e ambigua esaltazione, resta comunque che oggi tutta la critica riconosce che il Futurismo italiano è stato il movimento d’avanguardia più innovativo del Novecento anche a livello europeo. Ripulito dalle incrostazioni di regime, esso viene così riconsegnato ad una dimensione artistica più propria, di sicuro più asettica e meno manichea, caratteristica di un processo di rivalutazione che, attraverso un pullulare di mega-mostre e convegni, sembra contraddistinguere questi iperattivi anni Ottanta.